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FRASI DI SAN GIOVANNI BOSCO
SULL'ALLEGRIA E SUL COMPORTAMENTO

“Noi facciamo consistere la santità nello stare molto allegri”
(MB V 356)

“Voglio che tutti servano volentieri il Signore con santa allegria, anche in mezzo alle difficoltà”
(MB XVII 632)

“Una casa senza musica è come un corpo senz’anima”
(MB V 347)

“Crucci e melanconie via da casa mia”
(MB IX 996)

“Ricordatevi che il diavolo ha paura della gente allegra”
(MB X 648)

“L’educazione è cosa di cuore, e Dio solo ne è padrone”
(SPS 259)

“Perché si vuole sostituire all’amore la freddezza di un regolamento?”
(SPS 298)

“Miei cari, io vi amo con tutto il cuore, e basta che siate giovani perché io vi ami assai”
(SPS 30)

“Un pezzo di Paradiso aggiusta tutto”
(MB VIII 444)

“Non chiamiamo divertimento una giornata che lascia rimorsi nel cuore”
(MB II 31)

“Carità, pazienza, dolcezza, non mai rimproveri umilianti, non mai castighi. Fate del bene a chi si può, del male a nessuno”
(SPS 363)

“Fa che tutti quelli con cui parli, diventino tuoi amici”
(MB X 1183)

“Per fare del bene bisogna avere un poco di coraggio”
(MB III 52)

“ Il mio sistema preventivo si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e sopra l’amorevolezza”
(SPS 193)

EPISODI DELLA VITA DI SAN GIOVANNI BOSCO
-Giocoliere e Prestigiatore-
(tratte dalle memorie biografiche di Eugenio Ceria – editrice SEI - 1933)

Vol. I cap. XIII pag. 104

Giovanni si esercita nei giuochi di ginnastica e di prestigio – Episodio del cavadenti.

In quel tempo nacque in Giovanni un vivo desiderio di andare sui mercati e sulle fiere dei paesi vicini, per assistere a quei giuochi di prestigio e di forza, che mai mancano in simili occasioni. Istintivamente si sentiva portato a primeggiare fra i suoi conterranei per giovare alle anime loro. Ma egli non aveva nulla che potesse attirare a sé l'attenzione degli altri: non studi, non ricchezze, non posizione sociale. Per sovrappiù la sua casa era isolata, e non si trovava neppure in un centro ove potesse trattare con molti. D'altronde per entrare nell'animo di gente rozza e che naturalmente non si sarebbe assoggettata ad ascoltare le lezioni di un bambino, ci voleva per allettarla qualche speciale industria. Giovanni vide che la novità di un piacevole divertimento lo avrebbe reso padrone degli animi; ed eccolo a studiare il modo di rendersi valente nei giuochi di destrezza.
Ne chiese licenza alla madre, esponendole un certo suo disegno, che poi vedremo da lui eseguito. La madre, dopo aver pensato alquanto, accondiscese volentieri, ma siccome era necessario far qualche spesa: «Aggiustati come vuoi e come sai, gli disse, ma non chiedermi soldi perché non ne ho!». «Lasciate a me il pensiero di questo; saprò io a cavarmi dall'impiccio», rispose Giovanni. Vedremo nei capitoli seguenti come seppe industriarsi per aver denaro.
Fa meravigliare che una madre così prudente desse simile licenza al figlio, ma bisogna sapere che quei tempi erano diversi dai nostri; nelle popolazioni regnava maggiore semplicità di costumi e fra i ciarlatani ve n’erano di quelli che potevano passare per gente onesta e morigerata. Il famoso Orcorte, la cui abilità è ancora ricordata adesso fra la gente dopo tanti anni che è morto, era inappuntabile in quanto a castigatezza di modi e di parole. L’autorità civile vegliava eziandio con bastante premura a tutela della pubblica moralità , e prestava mano forte ai parroci, quando eravi un disordine da togliere. Ei poi non andava solo, ma accompagnato dalla madre o da persone sicure, alle quali la madre affidavalo.
Giovanni incominciò pertanto ad andare alle fiere che due volte all’anno si facevano a Castelnuovo, e si trovava spesso sui mercati pel solo fine di incontrarsi coi ciarlatani e i saltimbanchi. Appena sapeva giunto in qualche borgata chi ballava sulla corda o faceva giuochi difficili, subito là correva. Non già che si dilettasse dello spettacolo: voleva imparare. Andava risoluto di osservare attentamente ogni loro più piccola prodezza. Colà pagava due soldi per vederli lavorare più da vicino. Era tutt’occhi per sorprendere ogni loro modo o gesto più impercettibile, onde portarsi via le loro astuzie ed apprendere la loro destrezza. Ritornato a casa, si industriava e si esercitava a ripetere quei giuochi, finché non avesse imparato a fare altrettanto. Nessuno può immaginare le scosse, gli urti, le cadute, i capitomboli cui ad ogni momento andava soggetto in questi esercizii. Ma nulla importatagli; incominciava a fare un salto ed anche due, ma al terzo stramazzava per terra si da perdere il fiato.
Rialzavasi, riposava un momento e poi ritornava alle sue prove. S’accingeva a ballare sulla corda; stendeva questa a certa altezza, con un rozzo bilanciere da lui fabbricato vi slavia sopra e quindi tentava quell’aerea passeggiata. Talora sbatteva al suolo così pericolosamente, da dover rimanere morto; ma per fortuna non si fece mai alcun male notabile, ne mai si perdette di coraggio. Con questa costanza, chi li crederebbe? A undici anni erasi fatto abile in ogni specie di salti e di giuochi. Sapeva i giuochi dei bussolotti, il salto mortale, la rondinella, camminava sulle mani, saltava e danzava sulla corda come un saltimbanco di professione.
Avea pure imparato molti di quei prestigii, che fanno meravigliare coloro che non conoscono simili segreti. Oltre a ciò, egli, che non si dava pace finché di quanto gli veniva sott’occhio non avesse avuta l’intera spiegazione, aveva seguito con insistente osservazione ogni atto di un certo saltimbanco nel cavare i denti, arte nella quale era quegli peritissimo; e colla sua investigazione era riuscito a conoscere il modo di maneggiare la chiave inglese, la conformazione del dente incastonato nella gengiva, e il movimento della mano per strapparlo in un sol colpo.
L’assiduità di Giovanni a tali spettacoli sulle fiere, la sua attenzione, certe osservazioni fatte, certe interrogazioni mosse, avevano fatto nascere sospetti e diffidenze nei soliti ciarlatani, i quali si mostravano infastiditi della sua presenza, perché lo conoscevano ormai per uno che tentava di rubare loro il mestiere. Più di una volta si avvidero che avea penetrati i loro segreti. Ciò loro dava molta noia. Per conseguenza cercavano ogni mezzo per eluderne con destrezza l’attenzione, o volgendogli le spalle, o collocando qualche persona in modo che gli rimanesse celato il tavolino. Ma Giovanni cambiava posto, e si poneva sempre loro in faccia o di fianco, sicché riuscivano inutili quelle precauzioni.
Fra i varii aneddoti, che gli accaddero in questi tempi, non passo sotto silenzio il seguente, che egli raccontava spesse volte a’suoi figlioli per ricrearli. Queste sono per noi così care rimembranze, che quasi ci fan risuonare all’orecchio l’amabile voce, che nella nostra giovinezza ci fece passare tante ore felici di ricreazione: lo scherzo e l’ameno racconto fluiva continuamente dalle sue labbra. Questa giovialità fu il carattere di tutta la sua vita, anche in mezzo alle cure più spinose, ai dispiaceri più grandi.
Sulla piazza, adunque, di un paese vicino era venuto a far sue prove un cantambanco, con musica e gran cassa. Giovanni in mezzo alla folla si era spinto tanto innanzi, che era giunto presso la carrozza. Il ciarlatano di sua conoscenza voleva levarlo di là, ma non ci fu verso. «La piazza è pubblica» diceva Giovanni. Dall’alto della vettura il ciarlatano incominciò a raccontare le sue fanfaluche: come fosse venuto dal Gran Mogol, avesse percorsa tutta la Cina, fosse amico intimo di tutti i principi della Persia, avesse miracolosamente guarito il gran Kan di Tartaria, il Micado del Giappone, ecc., ecc.. ecc.
Continuava come pel bene dell’umanità avesse per lunghi anni fatto studii profondi sulle erbe al chiaro della luna e avesse scoperto dei segreti di natura così benefici da far trasecolare lo Salomone, se fosse stato a questo mondo: Rinforzando la voce, annunziava urbi et orbi come avesse trovato un mezzo miracoloso per cavare i denti al suo uditorio, o con una spada, o con un martello, o col dito, ma però senza che il paziente avesse a soffrire il minimo dolore. Ciò asseriva doversi attribuire ad una certa polvere, che egli era vento a vendere in quel paese a prezzi modicissimi, polvere che avea la portentosa virtù di guarire esiziandio mille altri mali. Per provare la sua asserzione sfoderava pergamene, lettere, patenti, attestati di benemerenza e faceva ciondolare in aria i sigilli di tutte le teste coronate del mondo. Affermava essere venuto in quel paese solamente pel bene dell’umanità sofferente, e quindi annunziava che chiunque avesse bisogno di guarire dal mal di denti, oppure di farsi togliere denti guasti si facesse pure avanti, chè egli senza il minimo suo dolore lo avrebbe servito.
Finita la magniloquente sua orazione, durante la quale aveva lanciato di quando in quando occhiate poco benevoli, anzi dirò sospettose sopra di Giovanni, mentre si asciugava il sudore, fece dare per un breve istante fiato alle trombe. Cessata la musica, ecco presentarsi un contadino a pregarlo di cavargli un dente causa di atroci dolori. Il ciurmatore, fatto salire il paziente in alto sul cassetto del cocchiere, lo invitò ad assidersi, comprimendo un atto d’impazienza che chiaro gli rileggeva tra le rughe della fronte. Il contadino, confuso per essere così esposto al pubblico, interrogò il ciarlatano: «Quanto volete per paga?».
«Uomo senza riputazione: rispose il ciarlatano. Io non lavoro per paga. Nessun denaro può pagare la mia abilità: se vorrete farmi un dono dopo l’operazione, mi degnerò d’accettarlo per farvi piacere».
«E… non mi farete proprio nessun male?».
«Lo stesso male come se neppur vi toccassi; aprite la bocca». E il paziente aperse la bocca che sembrava un forno.
«Qual è il dente che vi duole?».
«Questo!» rispose il contadino; e gli mostrò col dito un dente mascellare. Il ciarlatano allora si volse alla moltitudine degli spettatori, e magnificò il miracolo che presto tutti avrebbero visto della sua abilità. Il contadino replicò: «Ma non fatemi male, neh!».
«State tranquillo, e vedrete che cosa sono capace di fare io!»
Intanto Giovanni, appoggiato alle ruote della carrozza, osservava la scena con gli occhi sbarrati, con sulle labbra un certo sorriso sardonico e rattenendo quasi il fiato. Il ciarlatano, che lo teneva d’occhio, crollò il capo. Era uno scrutatore importuno per un uomo la cui fisionomia manifestava essere contrariato da qualche circostanza imprevista. Forse aspettava qualcuno indettato per fare il giuoco, e quel villanzone inatteso avea furato le mosse dell’altro.Fosse caso o combinazione, un forestiero erasi avvicinato alla carrozza pochi istanti dopo la comparsa di quel baggeo e aveva ammiccato con gli occhi il ciarlatano.
Comunque fosse la cosa, il fatto sta che il ciarlatano non si perdette d’animo, e messo un po’ della sua polvere sul dente cariato: «Or su», chiese: «a vostra scelta: volete che adoperi la spada, il martello o semplicemente le dita?». Naturalmente rispose l’altro: «Le dita!». Il ciarlatano si accinse all’operazione. Giovanni, che non perdeva un solo de’ suoi gesti, si accorse che dalla manica avea fatto correre nella mano una chiave inglese, e fece un atto che indicava di aver compreso la cosa. Il ciarlatano gli diede un’occhiata fulminante, emise le dita in bocca al villano. Il dente saltò fuori con stento, e un hai! formidabile uscì da quella bocca, appena potè formare il grido. Quell’urlo fu coperto da un «benissimo!» prolungato e contemporaneamente ancor più poderoso dell’urlo.
Giovanni non poté trattenere le risa. Il ciarlatano sembrò imbrogliato per un istante, ma si mantenne a sangue freddo. Il villano si alzò gridando: «Contacc, bugiardo, impostore, mi avete assassinato, mi avete sconquassato le gengive!».
La voce però era fioca sia pel dolore, sia pel sangue che dovea sputare. Ed il ciarlatano coprendola ripeteva: «Benissimo! signori! Sentano cosa dice quest’uomo! Esso non ha sofferto verun dolore!»
Il villano inviperito continuava a protestare, e il ciarlatano tenendolo per le braccia, perché temeva una colluttazione, gridava più forte: «Grazie, grazie! Non incomodatevi: l’ho fatto per carità». E lo spingeva a scendere, mentre quel forestiero vicino alla carrozza lo tirava giù prendendolo a braccetto, conducendolo via, come se fosse suo amico, e facendogli splendere innanzi agli occhi una moneta d’argento perché tacesse. Una fragorosa sinfonia soffocò le sue ultime voci, mentre i contadini, che di nulla si erano accorti, si accalcavano per comprare la polvere meravigliosa. Giovanni, che solo avea goduto quella scena per essere vicino alla carrozza, continuava a ridere, ma nulla disse ai circostanti. Fu questa una delle ultime volte che presenziò i giuochi dei ciarlatani.
Tornato a casa raccontò alla mamma il lepido fatto, e del terzetto eseguito dalle grida del ciarlatano e del contadino, accompagnate dal zunne e zunne della gran cassa. Rise la buona madre e: «Vedi», gli disse, «fuggi sempre dai luoghi dove si fa fracasso; è un minchione chi vi si lascia cogliere: gli cavano i denti. Sai per quale ragione dove si giuoca, dove si beve, si sente urlare e cantare? Perché ai disgraziati, che si lasciano circondare dalle cattive compagnie, in mezzo al frastuono si possa più facilmente strappare denaro, onore, stima, e soprattutto la grazia di Dio. Quanti incauti fanno a questo mondo una figura ancor più ridicola di colui che hai visto sulla carrozza del ciarlatano!».
Ma ora che cosa diremo noi di questo modo e di questi esercizi di Giovanni? Questa è certamente una pagina che potrà sembrare strana nella vita di un servo di Dio, e pochi riscontri si troveranno in altre biografie di Santi. Ma lo Spirito del Signore spira dove vuole e come vuole. Il ricreare i giovanetti per attirarli agli Oratori festivi doveva essere una necessità per i tempi che si preparavano, e il Signore in Giovanni avea creato la necessaria inclinazione, che rende più facile ciò che in altri sarebbe una croce insopportabile. Che cosa poteva trovar di meglio un povero contadinello, isolato in una borgata, senza un consigliere od un appoggio?
E poi il suo fine era santo. «E noi sappiamo» dice S. Paolo, «che le cose tutte tornano a bene per coloro che amano Dio».
Un altro grande pensiero si affacciava inoltre allora nella mente di Giovanni, e che più tardi gli faceva parlare con gusto di queste imprese ciarlatanesche. Se tutti i sacerdoti, se tutti i cristiani nel sostenere l’onore di Dio coll’esempio e colla parola, nel perorare la causa dell’orfano e del derelitto, nell’imporre silenzio a coloro, i quali con scandalosi discorsi attentano alla fede e alla morale, avessero la franchezza dei ciarlatani nel raccontare le loro storie, nel vendere i loro cerotti, quale bene immenso si farebbe! I ciarlatani non hanno rispetto umano, si espongono al pubblico franchi, liberi da ogni timore, e traggono così la gente dalla loro parte per fare i propri interessi. Se il coraggio inspirato dalla carità, unito alla prudenza cristiana, ovunque e sempre mettesse in pratica il predicate super tecta del divin Salvatore, quanto se ne avvantaggerebbero gli interessi divini per la salute delle anime!


Vol. I cap. XVII pag. 139

Il piccolo saltimbanco e il suo primo oratorio festivo

Nella bella stagione poi, specialmente al dopo pranzo dei giorni festivi, si radunavano quelli del vicinato e non pochi forestieri. Non solo venivano i giovani, ma eziandio gli uomini fatti e quelli dai capelli bianchi. Qui la cosa prendeva aspetto assai più serio. Giovanni dava a tutti trattenimento con alcuni di quei giuochi, che aveva imparato dai ciarlatani sulle fiere.
Ai Becchi havvi un prato, dove esistevano diverse piante, fra le quali un pero martinello. A quest'albero Giovanni attaccava una fune, che andava a rannodarsi ad altro albero a qualche distanza: di poi preparava un tavolino colla bisaccia: in fine collocava una sedia e stendeva un tappeto a terra per farvi sopra i salti. Quando ogni cosa era preparata nel bel mezzo del circolo formato dalla moltitudine ed ognuno stava ansioso di ammirare novità, allora Giovanni li invitava tutti a recitare la terza parte del rosario, quindi faceva cantare una laude sacra, finita la quale, saliva sopra la sedia, e: - Adesso, diceva, sentite la predica che ha fatto stamattina il cappellano di Morialdo.
Alcuni facevano smorfie ed atti d'impazienza, altri brontolavano sottovoce dicendo che non volevano saperne di prediche, altri si disponevano ad allontanarsi per quel momento. Giovanni sopra la sua sedia era come un re sopra il suo trono, e comandava così risolutamente da costringere all'obbedienza eziandio i vecchi di sessant'anni. - Ah! è così? gridava a quegli impazienti; partite pure di qua, ma ricordatevi che, se ritornerete quando farò i giuochi, io vi scaccierò e vi assicuro che non porterete più i piedi nel mio cortile. - A questa minaccia tutti si acquetavano e immobili stavano attenti alle sue parole. Egli allora incominciava la predica, o meglio ripeteva quanto si ricordava
della spiegazione del Vangelo udita al mattino in chiesa, oppure raccontava fatti od esempi uditi o letti in qualche libro. Di tanto in tanto gli uditori uscivano in queste esclamazioni: - Dice bene; sa bene! - Ed erano tutti contenti.
Terminata la predica, si faceva breve preghiera e tosto si dava principio ai divertimenti. L’oratore diveniva giocoliere di professione. Fare la rondinella, il salto mortale, camminare sulle mani col corpo alto; poi cingersi la bisaccia; mangiare gli scudi per andarli a ripigliare sulla punta del naso dell’uno o dell’altro; poi moltiplicate le pallottole, le uova; cangiare l’acqua in vino, uccidere un pollo e poi farlo risuscitare e cantare meglio di prima, erano gli ordinarii trattenimenti.
Sulla corda poi camminava come per un sentiero; danzava, si appendeva ora per un piede ora per due; talora con ambe le mani, talora con una sola: Anche il fratello Antonio andava a vedere i giuochi, ma non si metteva mai tra le prime file, sebbene si nascondeva per metà dietro ad un albero o a qualche pilastro, sicchè ora compariva ed ora scompariva la sua faccia beffarda, e rideva cogli altri o scherniva il piccolo giocatore: «Grande imbecille che sei», talvolta dicevagli, «farti burlare da tutti in questa maniera!».
Ma gli spettatori non gli badavano, e ridevano a crepapelle ai giuochi, ai frizzi, alle burle di Giovanni e gli battevano le mani. Talora mentre tutti stavano intenti a bocca aperta, in aspettativa di qualche nuovo strano prestigio, di un colpo Giovanni sospendeva i giuochi, e faceva loro cantare le litanie o dire il rosario, quando non si era recitato prima. Diceva loro. «Adesso vi sono ancora molte belle cose da vedere, ma prima di terminare, voglio che recitiamo tutti insieme una preghiera». Coglieva questo tempo intermedio; poiché se avesse aspettato a far l’invito al fine del trattenimento sarebbero tutti fuggiti. Dopo alcune ore di questa ricreazione in sul far della notte, allorché il piccolo giocatore era ben stanco, cessava ogni trastullo, facevasi altra breve preghiera, ed ognuno se ne andava pe’ fatti suoi. Da queste radunanze erano esclusi tutti quelli che avessero bestemmiato, fatti cattivi discorsi, o si fossero rifiutati di prendere parte alle pratiche religiose.
Qualcuno dei nostri lettori farà una domanda: «Per andare alle fiere e ai mercati ad assistere ai ciarlatani, come si è esposto in uno dei capi precedenti; per provvedere quanto occorreva per questi divertimenti, erano necessari danari; e questi dove si prendevano? A ciò in più modi poteva provvedere Giovanni. Tutti i soldi che sua madre e gli altri parenti gli davano per i suoi minuti piaceri e per le ghiottonerie, le piccole mance, i regali, tutto era in serbo per questo bisogno. Di più egli, perittissimo ad uccellare colla trappola, colla gabbia, col vischio, coi lacci e praticissimo delle nidiate, fatta raccolta sufficiente di uccelli, sapeva venderli assai bene. Inoltre fabbricava cappelli di paglia, che vendeva ai contadini sui mercati; come pure gabbie di canna a modo di trappola, specialmente per i passeri, coi richiami addestrati. I funghi, l’erba tintoria, il treppio erano per lui fonte di guadagno.
Aveva pure imparato ed era abilissimo nel filare stoppa, cotone, lino, fioretto, fiorone di bozzoli di seta,si da dare lezione di quest’arte ai vicini che a lui si raccomandavano. Riusciva anche molto bene a fare le calze a maglia sui ferri; sicché quando fu all’Oratorio, da per sé rinnovava talora gli scappini stracciati. Eziadio la caccia alle serpi gli era fonte di qualche lucro: Quando se ne scopriva qualcuna in un campo, si andava da lui, ed egli correva e con una pietra bene assestata colpiva il rettile; ma se mai questo fuggendo, riusciva a porre il capo in un foro delle macerie o sotto qualche radice, allora egli afferavalo per la coda, e girandolo rapidamente per aria, così continuava finché venuto presso a un albero, contro quello lo sbatteva, facendogli in un sol colpo saltare la testa.
Un'altra osservazione, alla quale risponderemo colle parole stesse di Don Bosco. «Voi qui, dice egli nel suo manoscritto, mi chiederete: “E la mia mamma era contenta che tenessi una vita cotanto dissipata, e spendessi il tempo a fare il ciarlatano?” Vi dirò che mia mamma mi voleva molto bene; ed io le aveva confidenza illimitata,e senza il suo consenso non avrei mosso un piede. Ella sapeva tutto, osservava tutto e mi lasciava fare. Anzi occorrendomi qualche cosa, me la somministrava assai volentieri: gli stessi miei compagni e in generale tutti gli spettatori mi davano con piacere quanto mi fosse stato necessario per procacciare loro questi ambiti passatempi».
Così mamma Margherita, col suo buon senso e molto più con quell’intuito naturale in un’anima che vive dell’amor di Dio, senza sapere ben il perché, coadiuvava nel suo Giovanni lo sviluppo della vocazione straordinaria, alla quale era chiamato per i tempi nuovi che andavano maturandosi. La virtù infatti non trovava ostacoli nella madre, la quale, sapendo quanto importasse che i fanciulli crescessero nell’umiltà, non smiracolava mai le gesta del figlio, non vantavalo mai in sua presenza, ma pregava il Signore per lui, ma pregava il Signore per lui, come pure lo pregava per gli altri suoi figliuoli. Ella osservava, taceva e pensava. Infatti un ragazzetto, un contadinello che a dieci anni s’impone ai fanciulli maggiori di lui, che parla in pubblico con franchezza, che si addestra a far ciò che piace alla folla, per costringerla a pregare e ad udire la ripetizione di una predica, non è cosa che si veda con molta frequenza.
Un giorno, mentre Giovanni avea teso la corda per giocare innanzi alla folla radunata nel cortile di sua casa, la madre sopra pensieri lo contemplava quasi senza trarre respiro. A un tratto giunge la Catterina Agagliati e salutandola: «Ebbene Margherita?», Margherita come scossa dal sonno si volse alla sua interlocutrice e sottovoce, ma con fuoco, le chiese: «Che cosa credete che ne verrà di mio figlio?». E l’altra: «È certamente destinata a fare qualche diavolio nel mondo!».
Giovanni in quelle assemblee domenicali godeva mezzo mondo; il disegno di vivere sempre in mezzo ai giovani, radunarli, far loro catechismo, gli era brillato nella mente fin dall’età di appena cinque anni. Ciò formava il suo più vivo desiderio, ciò sembratagli l’unica cosa che far dovesse su questa terra. Tale propensione era pure segnale della sua vocazione.
Nel 1825 adunque Giovanni incominciò quella specie di Oratorio festivo, facendo quanto era compatibile coll’età sua e colla sua istruzione; e lo continuò per parecchi anni, riuscendo sempre meglio fruttuose le sue parole, quanto più cresceva il suo corredo di cognizioni religiose. A tal uopo, metteva un impegno singolare nel raccogliere dai catechismi, dalle prediche, dalle letture fatte, narrazioni edificanti, per istillare in quanti l’udivano l’amore alla virtù.
Ma non i soli racconti, i soli giuochi e le belle maniere erano l’incanto che legava a lui i cuori di tanti giovani. Dal suo sguardo, dal suo volto doveva allora trasparire la purezza dell’anima sua, come sempre trasparì fino agli ultimi suoi giorni. Incontrarlo, stargli vicino cagionava una gioia, una pace, un diletto, una brama di farsi migliore, che non può avere la sua sorgente in affezione puramente umana. Ciò provarono migliaia di fanciulli, ciò attestarono migliaia de’ suoi cooperatori, che conosciutolo, più da lui non sapevano distaccarsi, e mai più poterono dimenticare quel fascino così sorprendente.
La spiegazione di ciò viene porta dal libro della Sapienza: «O quanto è bella la generazione casta con gloria (delle vinte tentazioni)! La memoria di lei è immortale, perché ella è conosciuta dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini. La imitano quand’ella è presente; e la desiderano quando ella è partita; e coronata trionfa nell’eternità, vinto il premio dei casti combattimenti».
Ma che il campo di azione, destinato dalla Provvidenza al piccolo figlio di Margherita, fosse più esteso di quello che parer potesse in principio, ben fu dimostrato fin d’allora da varie circostanze, nelle quali sembra impossibile che un fanciullo abbia avuto tanta sicurezza d’azione. Valgano, fra gli altri, i fatti seguenti.
Quando era sugli 11 o 12 anni, in occasione di una festa, ebbe luogo il ballo pubblico sulla piazza di Morialdo. Era il tempo delle sacre funzioni vespertine, e Giovanni, desideroso che cessasse quello scandalo, si portò sulla piazza, e mischiatosi tra la folla, composta in parte di suoi conoscenti, cercava di persuader la gente a desistere dal ballo e ad andare in chiesa ai vespri. «Guarda qui un fanciullo, quasi ancora a balia, che viene a darci legge!», diceva uno.
«Chi ti ha dato questa graziosa missione di venirci a fare il predicatore, il padre spirituale?» replicava un altro.
«Ci vuole il tuo muso per venirci a disturbare nel più bello del nostro divertimento!» soggiungeva un terzo.
«Va pei fatti tuoi e non intrigarti in ciò che non ti spetta!» brontolava bruscamente un quarto. E gli ghignavano in faccia. Giovanni allora si mise a cantare una canzone religiosa, popolare, ma con una voce così bella e così armoniosa, che a poco a poco tutti corsero a lui d’attorno. Egli, dopo qualche istante, si mosse verso la chiesa: gli altri tutti lo seguirono come incantati dalla sua voce, finché entrato egli in chiesa, vi entrarono essi pure.
Appressandosi la notte, Giovanni ritornò in mezzo al ballo che era stato ripreso con pazza frenesia. L’aria si faceva sempre più scura,e Giovanni diceva alle persone che gli sembravano più assennate: «È tempo d’andare via: il ballo diventa pericoloso». Ma, badandogli nessuno, si mise a cantare come aveva fatto poche ore prima. Al suono dolce e direi magico della sua voce, cessarono le danze e rimase sgombero il luogo del ballo. Tutti corsero intorno a lui per udirlo, e quando ebbe finito gli offersero non pochi doni perché ricominciasse. Riprese il suo canto, ma non volle accettare doni. I rettori del ballo, che vedevano col cessare delle danze eziandio il loro guadagno, gli si avvicinarono e offrendogli del denaro gli dissero: «Ecco, o tu accetti questo denaro e te ne vai, o sono busse che ti prendi, quali non hai mai sentite».
«Oeh! Rispose Giovanni, che parlare è il vostro? Qui son forse in vostra casa per obbedirvi? Non son libero di fare ciò che più mi talenta? Io ho qui parenti, che sono attesi alle loro case: se vengo a chiamarli, vi faccio torto? Le famiglie temono che succeda qualche disgrazia, qualche rissa, qualche ferimento: non è giusto che siano tolte dall’ansietà? A quest’ora specialmente, voi che avete giudizio, e siete brave persone, dovete intendere che non è impossibile che succedano disordini, dei quali poi vi resterebbero rimorso. Se io desidero l’ordine, gli è che la nostra borgata ebbe sempre un nome onorato presso gli altri paesi. Con questo forse vi manco di rispetto?». Queste ed altre simili ragioni, dette da un fanciullo, fecero stupire, e convinsero molti ad abbandonare il ballo. I più fanatici per le danze stettero ancora qualche istante; ma, essendo più in pochi, si determinarono essi pure di ritirarsi.
Si narra che in questa stagione gli sia accaduto un fatto singolare che per altro si ripeté poi ancora in varie occasioni: sfidare cioè con giochi di destrezza que’ ciarlatani che disturbavano le funzioni di chiesa.
Nella cappella di una borgata vicina ai Becchi una sera vi doveva essere predica: la casa di Dio era mediocremente piena, ma la piazza innanzi a questa era tutta ingombra di uomini, che facevano udire a coloro, che già erano dove il dovere religioso li chiamava, il loro confuso mormorio.
Quand’ecco all’improvviso s’aggiunge sulla piazza il suono della tromba. Nessuno più poté trattenere i ragazzi, i quali scattarono dai banchi e si precipitarono alla porta della chiesa. Le ragazze tennero dietro ai giovani; e dopo queste anche le donne spinte da curiosità si mossero. Il piccolo Bosco a tal vista corse egli pure sulla piazza, e fattosi largo tra la folla, si presentò in prima linea. Il comparire del giovanetto, noto per i suoi divertimenti così abilmente condotti, fece volgere a lui gli sguardi di tutti. Col capo e colle mani gli accennavano il cerretano, quasi per dirgli che avea trovato un competitore. Giovanni, che era uscito di chiesa, non per curiosità, ma per effettuare un suo disegno, si avanzò nel mezzo del circolo e sfidò il ciarlatano a far prova chi meglio fra loro due sapesse dar saggio di destrezza. Il ciarlatano guardò dall’alto in basso il fanciullo con aria di scherno, ma gli applausi del polo alla proposta del giovanetto gli fecero capire che non era suo onore rifiutare la sfida. Da tutte parti si gridava: «Bravo, bene; si, fa vedere la tua abilità!». Venne di comune accordo proposto non so quale giuoco. «Accettato», concluse Giovanni, ed ora veniamo alle condizioni: queste le propongo io: se voi vincete, io vi darò uno scudo: se vinco io, voi uscirete immediatamente dal territorio di questo paese, e non ci riporterete mai più piede in tempo delle sacre funzioni».
Tutta la gente avida di quel nuovo spettacolo: «Si, si», gridava. «Accetto», rispose il ciarlatano, sicuro della sua vittoria. Ma questa all’atto pratico fu di Giovanni, e il ciarlatano, raccolti i suoi arnesi, dovette mantenere la parola, e partire all’istante. Allora Giovanni disse alla turba: «E noi in chiesa!» e precedendola entrava nella casa di Dio.
Altra volta una persona straniera alla borgata, con lazzi poco verecondi, discorreva in mezzo a un numeroso crocchio di uomini e fanciulli, infiorando eziandio i suoi ragionamenti con motti che sapevano di bestemmia: Giovanni addolorato per quello scandalo, e vedendo che non era possibile imporre silenzio all’uno e all’altro e troncare le risa sguaiate degli altri, che cosa pensò di fare? In quel luogo vi erano due alberi poco distanti uno dall’altro: egli, presa una corda e fattole un nodo all’estremità, queste una dopo l’altra lanciò ad un ramo di ciascuno dei due alberi, si da rimanere strettamente allacciate e che la corda stesa fosse fortemente assicurata da non cedere. In due colpi l’operazione fu eseguita. La folla, accortasi di quella così abile manovra, lasciò il maldicente e venne a fargli corona. Giovanni allora spiccò un salto tanto alto da aggrapparsi alla corda; vi si assise sopra, quindi lasciò penzolare la testa, rimanendo attaccato solo pei piedi, poi si rizzò e prese a camminare su e giù, come se fosse in solido sentiero: Il giuoco durò fino a tanto che, venuta la sera, tutti si dispersero per ritornare ai propri casolari.
Così il giovanetto Bosco incominciava le prime prove della sua missione con quei mezzi che la divina Provvidenza avergli forniti. E quel Dio, che secondo l’espressione del libro dei Proverbi scherza, continuamente nell’universo colla sua onnipotenza creatrice e conservatrice, e pone le sue delizie nello stare coi figliuoli degli uomini, in certo modo cominciava a presentare al mondo l’istrumento, del quale voleva servirsi per la sua gloria: «Le cose stolte del mondo elesse Dio per confondere i sapienti; e le cose deboli per confondere le forti; e le ignobili e le spregevoli e quelle che non sono per distruggere quelle che sono; affinché nessun uomo si dia vanto dinanzi a lui… e chi si gloria, si glorii nel Signore”.


Vol I Cap. XXIX pag. 261

La società dell’allegria

Egli recava piacere a tutti e di tutti si cattivava la benevolenza, l'affezione e la stima. Questi suoi amici pertanto cominciarono a venire per ricreazione, poi per ascoltare racconti, poi per compiere i doveri di scuola; finalmente anche senza motivo venivano a lui, come i compagni di Morialdo e, di Castelnuovo. Per dare un nome a quelle riunioni, solevano chiamarle Società dall'Allegria: nome che assai bene si conveniva, perchè ciascuno era obbligato a cercare quei libri, introdurre quei discorsi e trastulli che avessero potuto contribuire a stare allegri; per contrario era proibita ogni cosa che cagionasse melanconia, e specialmente checchè non fosse secondo la legge del Signore. Chi pertanto avesse bestemmiato, o nominato il nome di Dio invano, o fatti cattivi discorsi, era immediatamente allontanato dalla società come indegno di appartenervi. Giovanni trovavasi alla testa di quella moltitudine di compagni. Di comune accordo furon posti per base di quella cara società i due articoli seguenti:
1 Ogni membro della Società dell'Allegria deve evitare ogni discorso, ogni azione che disdica ad un buon cristiano.
2 Esattezza nell'adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi.
Fra i componenti la Società dell'Allegria Giovanni ne potè rinvenire alcuni veramente esemplari. Meritano di essere nominati Guglielmo Garigliano di Poirino e Paolo Braja di Chieri. Il giovane Paolo Vittorio Braja era nato in Chieri il giorno 17 giugno dell'anno 1820, da Filippo Braja e Catterina Cafasso da Brusasco. Giovanetto era stato educato in casa, sotto la guida amorevole dello zio paterno canonico Giacinto Braja. Più tardi frequentò le scuole municipali, in cui fu caro ai superiori e maestri e segnalato esempio di studio e pietà ai condiscepoli. Di memoria e perspicacia non comune, al discernimento univa una prudenza superiore all'età sua. A dieci anni, andava già manifestando il desiderio di percorrere gli studi per avviarsi alla carriera sacerdotale. Si dilettava di ripetere le prediche udite. Un giorno per eccitamento dei parenti ed amici, studiò un intero discorso, e in un'adunanza di molta gente, salito sopra di un pulpito preparato all'uopo, declamò con tanta grazia, che lo si sarebbe creduto provetto oratore, riscuotendo l'ammirazione ed il plauso di quanti vollero essere presenti a tale esercizio. Soventi volte raccomandava agli amici e parenti di evitare il lusso e la moda, dicendo che l'arciprete Fosco molto insisteva su tal materia, asserendo che il lusso è un laccio del demonio. Applicava molto a proposito le parole udite, e se ne serviva per dar consigli agli amici e molte volte si dimostrava caritatevole consolatore degli afflitti.
Scrive D. Bosco: “Garigliano e Braja partecipavano volontieri all'onesta ricreazione, ma in modo che la prima cosa a compiersi fossero sempre i doveri di scuola. Amavano ambedue la ritiratezza e la pietà, e mi davano costantemente buoni consigli. Tutte le feste, dopo la congregazione del collegio, andavamo alla chiesa di S. Antonio, dove i PP. Gesuiti facevano uno stupendo catechismo, in cui raccontavansi parecchi esempi così ben scelti da ricordarsene per tutta la vita. Lungo la settimana poi la Società dell'Allegria si raccoglieva in casa di uno dei soci per parlare di religione. A questa radunanza interveniva liberamente chi voleva. Garigliano e Braja erano dei più puntuali. Ci trattenevamo alquanto in amena ricreazione, in pie conferenze, letture religiose, in preghiere, nel darci buoni consigli e nel notarci a vicenda quei difetti personali, che ciascuno avesse osservato o dei quali avesse da altri udito parlare. Senza che allora il sapessimo, mettevamo in pratica il sublime avviso: Beato chi ha un monitore. E quello di Pitagora: Se non avete un amico che vi corregga i difetti, pagate un nemico che vi renda questo servizio. E quell'altro dello Spirito Santo: “È migliore una aperta riprensione, che un amore che si nasconde; sono migliori le ferite che vengono da chi ama, che i falsi baci di chi odia”. Oltre a questi amichevoli trattenimenti andavamo ad ascoltare le prediche, spesso a confessarci e a fare la santa Comunione”.

Vol. I Cap. XXXV pag. 309

Giovannino Bosco sfida un saltimbanco professionista

Eziandio ai giovanetti popolani estendeva le sue cure. Nei giorni festivi egli andava per le piazze e per le strade in cerca di essi, per condurli, con sante industrie, al catechismo. Talvolta compariva nei luoghi ove i più riottosi si raccoglievano per giuocare, e mettendosi nella partita e guadagnando, prometteva di restituire la somma vinta, purchè lo seguissero alla chiesa. Non è quindi a far le meraviglie se egli possedeva il cuore di tanti amici.
Giovanni era eziandio l'anima di tutti i loro divertimenti. Così lasciò scritto: “In mezzo a' miei studi e trattenimenti diversi, come suono, canto, declamazione, teatrino, cui prendeva parte di tutto cuore, aveva eziandio imparati molti altri giuochi. Carte, tarocchi, pallottole, piastrelle, stampelle, salti corse erano tutti divertimenti di sommo mio gusto, in cui se non era celebre, non era certamente mediocre. Molti li aveva imparati a Morialdo, altri a Chieri; e se ne' prati di Morialdo era piccolo allievo, in quell'anno era divenuto un compatibile maestro. Ciò cagionava molta meraviglia, perchè a quell'epoca tali giuochi, essendo poco conosciuti, parevano cose dell'altro mondo. Soleva spesso dare pubblici e privati spettacoli. Siccome la memoria mi favoriva assai, così sapeva a mente una gran parte dei classici, specialmente poeti. Dante, Petrarca, Tasso, Parini, Monti ed altri assai mi erano così famigliari, da potermene valere a piacimento come di roba mia. Per la qual cosa riuscivami assai facile a trattare all'improvviso qualunque argomento. In quei trattenimenti, in quegli spettacoli talvolta cantava, talora suonava, o componeva versi che giudicavansi capi di opera, ma che in realtà non erano che brani d'autori accomodati agli argomenti proposti.
La sua abilità nella ginnastica fu cagione in quest'anno di un singolare avvenimento. Alcuni esaltavano a cielo un saltimbanco, che aveva dato pubblico spettacolo con una corsa a piedi, percorrendo la città di Chieri da una all'altra estremità in due minuti e mezzo, che è quasi il tempo della locomotiva a grande velocità. Costui riserbava per la domenica i giuochi più nuovi e più straordinari, per cui attirando molti giovanetti intorno a sè, ne avveniva che a Giovanni ne restavano pochi da condurre alla chiesa. Egli perciò era sommamente rattristato. Cercò di far capire ai giovani che facevano male tener dietro in quelle ore al giocoliere, parlò ai sordi. Mandò persone che invitassero il saltimbanco a desistere dà suoi giuochi, almeno in tempo delle funzioni in Sant’Antonio; ma a tale proposta lo screanzato si era messo a ridere. Anzi, tronfio della sua abilità, erasi vantato di superare in destrezza tutta la gioventù del collegio, pronto ad una gara e sicuro di vincere. Gli studenti rimasero offesi da simile provocazione. Se ne fece questione di corpo: si parlò del modo, col quale costringere il ciarlatano a ritrarre quell'insulto: gli sguardi di tutti si rivolsero a Giovanni, ed egli non volle dissentire dal far causa comune con essi: diportarsi altrimenti sarebbe stato offenderli: d’altronde prevedeva che, per vantaggio del bene, avrebbe acquistato sempre maggior ascendente sull'animo della scolaresca.. Anche in questo caso viene a proposito il consiglio di Salomone: “La buona grazia e l'amicizia fanno l'uomo franco; e tu conservale (stando unito agli amici) per fuggire i rimproveri”. Infatti, avendo noi interrogato D. Bosco, perchè si fosse regolato nel modo che vedremo appresso, egli ci rispose - Per accondiscendere al desiderio dei compagni. - Egli adunque, non badando alle conseguenze delle sue parole, disse che, per far piacere agli amici, si sarebbe volentieri misurato con quel ciarlatano nel giuocare, saltare e in qualunque altro esercizio ginnastico. Un imprudente suo amico riferì subito la cosa al saltimbanco, il quale accettò la sfida, beffandosi dello sfidatore. La scolaresca applaudì al suo campione, il quale, trovandosi così impegnato, si consolò pensando che, se la vittoria gli avesse arriso, l'avversario svergognato avrebbe abbandonato il campo.
Si sparse subito la voce per Chieri: - Uno studente sfida un corriere di professione. - Il luogo scelto fu il viale Porta Torinese. La scommessa era di 20 lire. Non possedendo Giovanni quel danaro, parecchi amici di famiglie agiate, appar
tenenti alla Società dell'Allegria, gli vennero in soccorso. Tutta la scolaresca e una moltitudine di gente assisteva. Sono eletti i giudici del giuoco. Giovanni si toglie la giubba per essere più sciolto nei movimenti: quindi si fa il segno della croce e si raccomanda alla Madonna, come era solito in ogni circostanza grande o leggiera della vita. Si comincia la corsa, ed il rivale lo guadagna di alcuni passi; ma tosto Giovanni riacquista il terreno e lo lascia talmente indietro, che a metà corsa si ferma dandogli partita guadagnata.
- Ti sfido a saltare, e avrò la consolazione di vederti in un fosso e ben bagnato, disse a Giovanni il ciarlatano, ma voglio scommettere lire 40 e di più se vuoi. - Gli studenti, che aveano esposta la prima somma, accettarono la sfida, e toccando al ciarlatano scegliere il luogo, ei lo fissò contro il parapetto del ponticello d'una gora. I competitori, circondati da una numerosa turma di fanciulli e di persone adulte, si volsero verso il sito indicato. Il fosso era assai largo e pieno di acqua. Il ciarlatano saltò il primo e pose il piede vicinissimo al muriccio, sicchè più in là non si poteva avanzare; dovette però abbracciarsi ad un albero della ripa, per non cadere nel fosso. Tutti erano sospesi ed attenti per osservare che cosa sarebbe stato capace di fare Giovanni, giacchè oltre il limite raggiunto dal ciarlatano pareva impossibile andare innanzi. L'industria però gli venne in soccorso. Fece il medesimo salto, ma con questa diversità, che, gettate le mani sul muriccio, slanciò il suo corpo al di là del parapetto, si da rimanervi ritto in piedi. Gli applausi furono generali.
- Voglio ancora farti una sfida: scegli qualunque giuoco di destrezza gridò il ciarlatano sdegnosamente. Giovanni accettò e scelse il giuoco della bacchetta magica, colla scommessa di 80 lire. Giovanni pertanto prese una bacchetta, le pose ad una estremità un cappello, quindi appoggiò l'altra estremità sulla palma della mano; dipoi, senza toccarla coll'altra mano, la fece saltare sulla punta del dito mignolo, dell'anulare, del medio, dell'indice, del pollice; quindi sulla nocca della mano, sul gomito, sulla spalla, sul mento, sulle labbra, sul naso, sulla fronte; indi, rifacendo lo stesso cammino, la bacchetta gli tornò sulla palma della mano.
- Non temo di perdere, disse il ciarlatano al suo rivale, è questo il mio giuoco prediletto. - Prese adunque la medesima bacchetta, e con meravigliosa destrezza la fece camminare fin sulle labbra; ma, avendo alquanto lungo il naso, essa urtò, perdette l'equilibrio, sicchè il cerretano dovette afferrarla con l'altra mano per non lasciarla cadere a terra. Il povero saltimbanco, vedendo andare così a fondo il suo patrimonio, quasi furioso esclamò: - Piuttosto qualunque altra umiliazione, ma non quella di essere vinto da uno studente. Ho ancora cento franchi, e questi li scommetto e li guadagnerà chi di noi arriverà a portare i piedi più vicino alla cima di quest'albero. - Accennava ad un olmo, che era accanto al viale. Gli studenti e Giovanni accettarono anche sta volta; anzi, sentendo di lui compassione, in certo modo erano contenti che egli guadagnasse, giacchè non volevano rovinarlo. Il ciarlatano, abbracciatosi al tronco dell'olmo, salì pel primo e, lesto come un gatto, di ramo in ramo, giunse a tale altezza, che, per poco fosse salito più alto sarebbesi il ramo piegato e rotto, lasciando cadere a precipizio l'audace rampicante. Tutti gli spettatori dicevano che non era possibile salire più in alto. - Sta volta hai perduto! - andavano ripetendo a Giovanni. Questi fece la sua prova. Salì fin dove potevasi senza far curvare la pianta; poi, tenendosi colle mani all'albero, alzò il corpo e portò i piedi circa un metro oltre l'altezza del suo contendente, sopravanzando la punta stessa dell'albero. Chi mai può esprimere le acclamazioni della moltitudine, la gioia dei compagni di Giovanni, il trionfo e la soddisfazione del vincitore e la rabbia del saltimbanco! In mezzo però alla grande desolazione del vinto, gli studenti vollero procurargli un conforto. Mossi a pietà della tristezza del poverino, gli proposero, di ritornargli il suo danaro, se accettava una condizione di pagare cioè un pranzo all'albergo del Muretto. Accettò egli con gratitudine la generosa proposta; ed in numero di ventidue, che tanti erano i partigiani di Giovanni, andarono a godere un lauto pranzetto, che costò 45 lire e permise così al ciarlatano di rimettere in tasca ancora 195 lire.
Quello fu veramente un giovedì di grande allegria per tutti e di grande gloria per Giovanni. Nè dovette essere troppo, malcontento il ciarlatano, il quale riebbe quasi tutto il suo danaro e godette un buon pranzo. Nel separarsi egli ringraziò tutti dicendo: - Col ritornarmi questo danaro, voi impedite la mia rovina. Vi ringrazio di tutto cuore. Serberò di grata memoria, ma non farò mai più scommessa cogli studenti.
Testimonio di questa gara fu il campanaro del duomo, Domenico Pogliano, che narrava il fatto a' suoi famigliari ed amici ed affermava aver fatto Giovanni così nettamente il salto del fosso, che sembrò fosse portato da un angelo. Noi poi che ancora nel 1885 abbiamo visto D. Bosco a giuocherellare con un bastoncello in modo veramente meraviglioso, facilmente ci persuadiamo non esservi esagerazione in questo racconto.
Giovanni continuò finchè fu secolare, a giovarsi di questa sua abilità per introdursi nei crocchi dei giovani condiscepoli o conoscenti, quando aveva timore si uscisse in qualche discorso poco decente. Con parole cortesi incominciava a distrarli, proponendo loro alcuni giuochi curiosi. Ora sfidavali a prendere da terra un soldo col dito mignolo e coll'indice della stessa mano; ora a fare arco della persona, rivoltandosi totalmente in dietro sì da toccare il suolo col capo, stando sui piedi; ed ora a congiungere bene i piedi e chinarsi a baciare la terra senza toccarla colle mani. Frattanto, mentre i giovani sfidati facevano le loro prove, i compagni si smascellavano dalle risa a que' contorcimenti, a que' tentativi inutili, a quegli stramazzoni e musate per terra degli inesperti; e, per tal modo occupati, più non pensavano all'argomento dei loro primieri discorsi, e non si partivano mai da Giovanni senza aver prima ricevuto da lui un buon pensiero.
Chi legge queste pagine, nel vedere il giovane Bosco così destro in simili giuochi, così slanciato in una sfida, così ardito in mezzo alla moltitudine, insomma capo popolo fra gli studenti, s'immaginerà che egli allora avesse un portamento sciolto, un fare da spavaldo. Eppure non era così. Abbiamo udito a narrare da sacerdoti esemplari suoi condiscepoli, che giovane egli aveva lo stesso contegno che teneva da prete a settant'anni: amorevole, alquanto sostenuto, riserbato nel tratto e nei gesti, parco nelle parole. Alcuni di costoro venuti a visitarlo nell'Oratorio, dopo anni ed anni di lontananza, esclamavano nell'uscire dalla sua stanza: - È sempre lo stesso, quello di una volta, quando eravamo Chieri. - Così disse fra gli altri il Padre Eugenio Nicco dei Minori Osservanti. Tuttavia D. Bosco più volte si udì ripetere: - Finchè non fui posto al Convitto di S. Francesco d'Assisi, non ebbi mai una persona che si prendesse una cura diretta dell'anima mia. Feci sempre da me quel che mi pareva meglio; ma sotto un'assidua e accurata direzione mi sembra che avrei potuto fare più che non feci.
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Vol. I Cap. XXXIX pag. 343

Giuochi di prestigio - Giovanni è accusato di magia - Come si discolpa.

Come negli anni precedenti, così anche in questo, Giovanni è sempre apportatore di allegrezza in tutti i luoghi, nei quali mette piede. La sua urbanità contegnosa, schietta, cordiale, ilare, innamora. Nelle case di Chieri, nei ritrovi dei giovani appartenenti alla Società dell'Allegria, egli è desideratissimo, invitato e bene accolto eziandio per le meraviglie che sa operare coi giuochi di destrezza. L'onesta ricreazione è sempre lecita in tempo opportuno. Que' giuochi talmente interessano coloro che vi assistono, da non aver tempo a pensare o parlare di altro. Giovanni colle sue parole s'impadronisce così delle loro menti, da trarle dove vuole.
Uccidere un passero, pestarlo nel mortaio, metterlo in una canna di pistola, sparare e vederlo volar via vivo e sano, era uno dei prestigi che facea più sovente. Dalla stessa bottiglia traeva vino bianco o nero, a richiesta dei convitati. Un giorno scommise di far scomparire un largo piatto di agnellotti preparati in cucina e mandarli in un'altra casa della borgata. Gli uni nascostamente facevano segno sul piatto: tutti curiosamente stavano all'erta; ma dopo segni, parole incomprese e lunghe questioni, Giovanni annunzia che il prestigio è fatto ed invita tutti ad andare nella casa indicata ad accertarsi. Tutti prendono la corsa per quella volta e vi trovano infatti la vivanda identica promessa. Si capisce come può essere andata la cosa; ma ci vuole una presenza di spirito non comune, per assorbire i pensieri, preoccupare tanto le intelligenze dei testimoni, che non si avvedano del modo e del momento del giuoco. Era valentissimo nel maneggiare i bussolotti. Il veder uscire da un piccolo bussolotto tante palle tutte più grosse di quello, da un piccolo taschetto tirar fuori mille uova, erano cose che facevano trasecolare. Quando però lo videro raccogliere pallottole dalla punta del naso degli astanti, indovinare i denari che si trovavano nella saccoccia altrui; quando al semplice tatto delle dita si riducevano in polvere monete di qualsiasi metallo, o si faceva comparire l'udienza intera di orribile aspetto ed anche senza testa, allora si cominciò da taluno a dubitare che Giovanni fosse un mago, che non potesse operare quelle cose senza l'intervento di qualche diavolo.
Accresceva credenza il suo padrone di casa, di nome Tommaso Cumino. Era desso un fervoroso cristiano, che amava però molto lo scherzo, e, Giovanni sapeva approfittarsi del suo bel carattere o meglio della sua dabbenaggine, per far gliene di tutti i colori. Un giorno, avendo preparato con grande cura una buona gelatina con un pollo da regalare a' suoi pensionari nel suo dì onomastico, quando si portò in tavola il piatto e lo si ebbe scoperto, con meraviglia di tutti ne saltò fuori un gallo, che, svolazzando, si diede a cantarellare. Altra volta, volendo apprestare una pentola di maccheroni, dopo averli fatti cuocere assai lungo tempo, nell'atto di versarli nel piatto trovò altrettanta crusca asciutissima. Più volte, dopo aver empita la bottiglia di vino, versandolo nel bicchiere trovò limpida acqua; e quando voleva bere acqua, trovavasi invece il bicchiere pieno di vino. Le confetture convertirsi in fette di pane; il danaro della borsa tramutarsi in inutili e rugginosi pezzetti di latta; il cappello divenire cuffia; noci e nocciuole cangiarsi in sacchetti di minuta ghiaia erano cose assai frequenti. Talora Giovanni gli facea sparire gli occhiali, che poi ritrovava nelle sue saccocce, dove pure avea prima frugato e rifrugato fino a rinversarle. Un oggetto gelosamente riposto, come sarebbe un portafoglio, gli compariva d'innanzi; e un altro, che avea sott'occhio, in un momento si rendea irreperibile ad un cenno del suo pensionante. Sovente erangli presentate varie carte da giuoco, perchè ne scegliesse una qualunque, e poi si veniva ad indovinare quale avesse preso. Altre volte gli si diceva di pensare una cifra, sommarla, moltiplicarla e diminuirla, finchè gli si scopriva quale avesse pensato. Egli rimaneva stordito. Accadde che, fatta scommessa di far venir presente una chiave, che sapeasi certamente essere altrove, questa si trovò in fondo alla zuppiera appena fu scodellata la minestra.
Il buon Tommaso a simili scherzi, che si, può dire accadevano ogni giorno, non sapeva dire altro fuorchè: - Gli uomini non possono fare queste cose; Dio non perde tempo in tali inutilità; dunque è il demonio che fa tutto ciò. - E già aveva quasi deliberato di congedare Giovanni da sua casa. Non osando parlare con quei di casa, pensò di consigliarsi con un vicino sacerdote, D. Bertinetti. Andò quindi un bel giorno a visitarlo e quasi esterrefatto: - Signore, gli disse, vengo da lei per un affare serio di coscienza. Credo di avere in casa un mago! - E narrò al buon prete una filatessa di cose, che avea viste e di cose che non avea viste, cioè che sospettava, e le dipinse con tanta vivezza di colori, che trasfuse la sua persuasione in D. Bertinetti. Il quale, scorgendo anche esso in quei trastulli una specie di magia bianca, decise di riferire la cosa al delegato delle scuole, che era in quel tempo un rispettabile ecclesiastico, il canonico Burzio, arciprete e curato del duomo. Fu incaricato il campanaro del duomo, Pogliano, presso il quale Giovanni continuava a ritirarsi per studiare, di avvertire il giovane che si recasse da lui per esaminarlo, non ostante che il medesimo campanaro conosceva a fondo, assicurasse al riguardo l'arciprete.
Il canonico Burzio era persona assai istrutta, pia, prudente. Giovanni giunse in sua casa mentre recitava il breviario e subito dopo che aveva dato alcune monete ad un poverello. Il buon canonico, guardandolo con sorriso, gli accennò di attendere alquanto; quindi gli disse di seguirlo nel gabinetto e prese ad interrogarlo sulla sua fede, cioè sul catechismo Giovanni rispose a meraviglia, ma prevedendo dove sarebbe andato a finire quell'esordio, a stento frenava le risa. Il sacerdote passò a domandargli come impiegasse la sua giornata e le risposte furono soddisfacentissime. Franco era il parlare del giovane, ragionevole l'esposizione, e non compariva ne' suoi modi ombra d'inganno. L'esaminatore però non ancor pago, con parole cortesi, ma con aspetto severo, continuò ad interrogarlo: - Mio caro, io sono molto contento del tuo studio e della condotta che hai tenuto finora; ma ora si raccontano tante cose di te …..Mi dicono che tu conosci i pensieri degli altri, indovini il danaro che altri ha in saccoccia, fai vedere bianco, quello che è nero, conosci le cose da lontano e simili. Ciò fa parlare assai di te; e taluno giunse a sospettare che tu ti serva della magia, e che perciò in quelle opere vi sia lo spirito di Satana. Dimmi adunque: chi ti ammaestrò in questa scienza? dove l'hai imparata? dimmi ogni cosa in modo confidenziale; ti assicuro che non me ne servirò, se non per farti del bene.
Senza scomporsi di aspetto, Giovanni gli chiese cinque minuti di tempo a rispondere, e lo invitò a dirgli l'ora precisa. Il canonico mise la mano in tasca e più non trovò il suo orologio. - Se non ha l'orologio, soggiunse Giovanni, mi dia una moneta da cinque soldi. - Il canonico frugò in ogni saccoccia, ma non trovò più la sua borsa - Briccone, prese a dirgli tutto incollerito: o che tu sei servo del demonio, o che il demonio serve a te. Tu mi hai già involato borsa ed orologio. Io non posso più tacere, sono obbligato a denunziarti, e non so come mi tenga dal non darti un sacco di bastonate. - Ma, nel rimirare Giovanni calmo e sorridente, parve acquietarsi alquanto e ripigliò: - Prendiamo le cose in modo pacifico: spiegami questi misteri. Come fa possibile che la mia borsa e il mio orologio uscissero dalle mie saccocce, senza che io me ne sia accorto? dove sono andati questi oggetti?
- Signor arciprete, rispose Giovanni rispettosamente; io spiego tutto in poche parole. È tutta destrezza di mano, intelligenza presa, o cosa preparata.
- Che intelligenza vi potè essere pel mio orologio e per la mia borsa?
- Spiego tutto in breve. Quando giunsi in casa sua, ella dava elemosina ad un bisognoso, di poi mise, la borsa sopra un inginocchiato. Andando poi di questa in altra camera, lasciò l'orologio sovra questo tavolino. Io nascosi l'uno e l'altro, ed ella pensava di avere quegli oggetti con sè, mentre invece erano sotto a questo paralume. - Ciò dicendo, alzò il paralume, e si trovarono ambedue gli oggetti creduti dal demonio portati altrove. Rise non poco il buon canonico; gli fece dar saggio di alcuni atti di destrezza, e come potè conoscere il modo con cui le cose facevansi comparire e disparire, ne fu molto allegro, fece a Giovanni un piccolo regalo e in fine conchiuse: - Va a dire a tutti i tuoi amici che ignorantia est magistra admirationis.
Giovanni pertanto, discolpatosi che ne' suoi divertimenti non vi era magia bianca, continuò i suoi giuochi nella casa di pensione, ove accorrevano per ricrearsi eziandio parroci e canonici. Anzi, invitato, prestavasi nelle case dei signori e nelle abitazioni parrocchiali dei paesi circonvicini, ma sempre a puro titolo di amicizia. Era famoso specialmente nel fare andare gli oggetti in luoghi lontani o da luoghi lontani farli venire in mezzo all'assemblea. Per questa sua destrezza, gli amici al soprannome di sognatore gli aggiunsero quello di mago.


Vol. 1 Cap. XLII. Pag. 369

Crisi di Giovanni Bosco nel far uso dei divertimenti mondani – Incontro con don Cafasso

Deliberato di entrare in seminario, Giovanni Bosco andava preparandosi a quel giorno di massima importanza, nel quale avrebbe indossato l'abito sacro. Egli era ben persuaso che dalla scelta dello stato ordinariamente dipende l'eterna salvezza o l’eterna perdizione; laonde raccomandò a varii amici di pregare per lui, premise una novena con particolari esercizii di pietà, ed il giorno 25 ottobre si accostò ai SS. Sacramenti; di poi il teologo Michele Antonio Cinzano, prevosto e vicario foraneo di Castelnuovo d'Asti, prima della Messa solenne, gli benedisse l'abito e lo vestì da chierico.
In chiesa (come narrò a D. Secondo Marchisio il Cav. Prof. A. Francesco Bertagna di Castelnuovo d'Asti) eravi un numero straordinario di giovani, venuti eziandio da borgate e paesi circonvicini, e tutti ammiravano la compostezza, la grande divozione e l’umiltà di Giovanni nell'atto della vestizione. E qui crediamo far cosa ottima nel cedere la penna a D. Bosco stesso, il quale ci descrive pure i sentimenti che provò in quel solenne momento ed in tutto quel primo giorno della sua vita chiericale.
“Quando il prevosto mi comandò di levarmi gli abiti secolareschi con quelle parole: Exuat te Dominus veterem bominem cum actibus suis, dissi in cuor mio: - Oh quanta roba vecchia c'è da togliere. Mio Dio, distruggete in me tutte le mie cattive abitudini. - Quando poi nel darmi il collare aggiunse: Induat te Dominus novum bominem, qui secundum Deum creatus est in justitia et sanctitate veritatis! mi sentii tutto commosso e aggiunsi tra me: - Sì, o mio Dio, fate che in questo momento io vesta un uomo nuovo, cioè che da questo momento io incominci una vita nuova, tutta secondo i divini voleri, e che la giustizia e la santità siano l'oggetto costante dei miei pensieri, delle mie parole e delle mie opere. Così sia. O Maria, siate la salvezza mia.
” Compiuta la funzione di chiesa, il mio prevosto volle farne un'altra tutta profana, volle cioè condurmi alla festa di S. Raffaele Arcangelo, che si celebrava a Bardella, borgata di Castelnuovo. Egli con quel festino intendeva usarmi un atto di benevolenza, ma non era cosa opportuna per me. Quale figura avrei fatto io? Quella d'un burattino vestito di nuovo, che si presenta al pubblico per essere veduto. Inoltre, dopo più settimane di preparazione a quella sospirata giornata, trovarmi poi ad un pranzo in mezzo a gente di ogni condizione, di ogni sesso, colà radunata per ridere, chiacchierare, mangiare, bere, divertirsi, gente che per lo più va in cerca di giuochi, balli e partite di tutti i generi, era proprio un controsenso: io mi sarei trovato fuori di posto: quale società poteva mai formare quella gente, con uno che il mattino dello stesso giorno aveva vestito l'abito di santità per darsi tutto al Signore? Perciò rispettosamente gli risposi:
- Ma a Bardella si fa la festa del paese!
- È per questo che io sono invitato; vieni, vieni anche tu.
” - Oh! io non sono capace a diportarmi onorevolmente in queste feste; se permette, me ne sto qui in canonica a pranzo.
” - Ma qui in casa non si accende neppure il fuoco; siamo invitati tutti là.
” - Ed io me ne andrò a casa mia a pranzate con i miei parenti.
” - Sei troppo lontano per andare a casa tua, e poi i tuoi parenti non ti attendono. Vieni senz’altro; ti conduco, perchè c' è anche da servire alla benedizione e c’ è sempre da fare qualche cosa in segrestia e in chiesa.
” Andai per non dare dispiacere al parroco, che mi portava tanto affetto, ma a malincuore, perchè sapevo che nei tumulti e nei grandi pranzi vi è sempre pericolo dell'offesa di Dio. Assistei a tutte le funzioni nella cappella, fui al pranzo: vidi tutto quello che si costuma fare in queste feste; ma per me quello fu un giorno di malinconia.
” Il mio prevosto se ne accorse, e nel ritornare a casa mi chiese perchè in quel giorno di pubblica allegria io mi fossi mostrato cotanto ritenuto e pensieroso. Con tutta sincerità risposi che la funzione fatta al mattino in chiesa discordava in genere, numero e caso con quella della sera, e soggiunsi: Anzi l'aver veduto coloro, che meno avrei creduto, fare i buffoni in mezzo ai convitati, pressochè brilli di vino, mi ha quasi fatto venire in avversione la mia vocazione. Se mai sapessi di venire un prete come quelli, amerei meglio deporre quest'abito e vivere da povero secolare, ma da buon cristiano, ovvero ritirarmi dal mondo e farmi Certosino o Trappista.
” - Il mondo è fatto così, mi rispose il prevosto, e bisogna prenderlo com'è. Bisogna veder il male per conoscerlo ed evitarlo. Niuno divenne valente guerriero, senza conoscere il maneggio delle armi. Così dobbiamo fare noi, che abbiamo un continuo combattimento contro al nemico delle anime. Tacqui allora, ma nel mio cuore ho detto: Non andrò mai più in pubblici festini, fuori che sia obbligato per funzioni religiose.
” Dopo quella giornata io doveva occuparmi di me stesso. La vita fino allora tenuta doveva essere radicalmente riformata. Negli anni addietro non era stato uno scellerato, ma dissipato, vanaglorioso, occupato in partite, giuochi, salti, trastulli ed altre cose simili, che rallegravano momentaneamente, ma che non appagavano il cuore. Per farmi un tenore di vita da non dimenticarsi ho scritto le seguenti risoluzioni:
” l° Per l'avvenire non prenderò mai più parte ai pubblici spettacoli sulle fiere, sui mercati: nè andrò a vedere balli o teatri: e per quanto mi sarà possibile, non interverrò ai pranzi, che si sogliono dare in tali occasioni.
” 2° Non farò mai più i giuochi dei bussolotti, di prestigiatore, di saltimbanco, di destrezza, di corda: non suonerò, più il violino, non andrò più alla caccia. Queste cose le reputo tutte contrarie alla gravità ed allo spirito ecclesiastica.
” 3° Amerò e praticherò la ritiratezza, la temperanza nel mangiare e nel bere: e di riposo non prenderò se non le ore strettamente necessarie alla sanità.
” 4° Siccome nel passato ho servito al mondo con letture profane, così per l'avvenire procurerò di servire a Dio dandomi alle letture di cose religiose.
” 5° Combatterò con tutte le mie forze ogni cosa, ogni lettura, pensiero, parole ed opere contrarie alla virtù della castità. All'opposto praticherò tutte quelle cose, anche piccolissime, che possono contribuire a conservare questa virtù.
” 6° Oltre alle pratiche ordinarie di pietà, non ometterò mai di fare ogni giorno un poco, di meditazione ed un poca di lettura spirituale.
” 7° Ogni giorno racconterò qualche esempio o qualche massima vantaggiosa alle anime altrui. Ciò farò coi compagni, cogli amici, coi parenti, e, quando nol posso con altri, il farò con mia madre.
” Queste sono le cose deliberate allorchè ho vestito l'abito chiericale; ed affinchè mi rimanessero bene impresse, sono andato avanti ad un'immagine della Beata Vergine, le ho lette, e, dopo una preghiera, ho fatto formale promessa a quella Celeste Benefattrice di osservarle a costo di qualunque sacrifizio.
” Il giorno 30 ottobre di quell’anno 1835 doveva trovarmi in seminario. Il piccolo corredo era preparato. I miei parenti eran tutti contenti: io più di loro. Mia madre soltanto stava in pensiero e mi teneva tuttora lo sguardo addosso come volesse dirmi qualche cosa. La sera precedente la partenza ella mi chiamò a sè e mi fece questo memorando discorso: Giovanni mio, tu hai vestito l'abito ecclesiastico; io ne provo tutta la consolazione che una madre può provare per la fortuna di suo figlio. Ma ricordati che non è l'abito che onora il tuo stato, è la pratica della virtù. Se mai tu venissi a dubitare di tua vocazione, ah per carità! non disonorare quest'abito. Deponilo tosto. Amo meglio di avere per figlio un povero contadino, che un prete trascurato ne' suoi doveri. Quando sei venuto al mondo, ti ho consecrato alla Beata Vergine: quando hai cominciato i tuoi studi ti ho raccomandato la divozione a questa nostra Madre: ora ti raccomando di essere tutto suo: ama i compagni divoti di Maria; e se diverrai sacerdote, raccomanda e propaga mai sempre la divozione di Maria. - Nel terminare queste parole mia madre era commossa: io piangeva: - Madre, le risposi, vi ringrazio di tutto quello che avete detto e fatto per me; queste vostre parole non saranno dette invano e ne farò tesoro in tutta la mia vita.

” Al mattino per tempo mi recai a Chieri, e la sera dello stesso giorno entrai in seminario, stabilito nell'ampio convento dei Padri Filippini, soppresso dal governo francese ed acquistato per radunarvi i chierici nel 1828 da Mons. Chiaverotti. Rettore del seminario era il Teol. Sebastiano Mottura, Can. Arciprete della Collegiata di Chieri: direttore spirituale D. Giuseppe Mottura, poi canonico dell'insigne Collegiata di Giaveno. Salutati i superiori e aggiustatomi il letto, con l'amico Garigliano, che aveva pur esso vestito l'abito chiericale, mi sono messo a passeggiare pei dormitori, pei corridoi e in fine pel cortile. Alzando lo sguardo sopra una meridiana, lessi questo verso: Affictis lentae, celeres gaudentibus hora. Ecco, dissi all'amico, ecco il nostro programma: stiamo sempre allegri e passerà presto il tempo.
” Il giorno dopo incominciò un triduo di esercizi, ed ho procurato di farli bene per quanto mi fu possibile. Sul finire di quelli mi recai dal professore di filosofia, che allora era il Teol. Ternavasio di Bra, e gli chiesi qualche norma di vita per riuscire un buon chierico ed acquistarmi la benevolenza de' miei superiori. Una cosa sola, rispose il degno sacerdote: coll'esatto adempimento dei vostri doveri.
” Ho preso per base questo consiglio e mi diedi con tutto l'animo all'osservanza delle regole del seminario. Non faceva distinzione tra quando il campanello chiamava allo studio, in chiesa, oppure in refettorio, in ricreazione, al riposo. Questa esattezza mi guadagnò l'attenzione dei compagni e la stima dei superiori, a segno che sei anni di seminario furono per me una piacevolissima dimora. Tanto più che gli studi vi erano ben coltivati.
” Oltre a ciò, affezionavami a quel luogo il nome di D. Cafasso. Il buon odore delle sue virtù rimaneva ancora in quel sacro recinto. La carità verso i compagni, la sommessione ai superiori, la pazienza nel sopportare i difetti degli altri, la cautela di non mai offendere alcuno, la piacevolezza nell'accondiscendere, consigliare, favorire i suoi compagni, l'indifferenza negli appressamenti di tavola, la rassegnazione nelle vicende delle stagioni, la prontezza nel fare il catechismo ai ragazzi, il contegno ovunque edificante, la sollecitudine nello studio e nelle cose di pietà sono le doti, 'che adornarono la vita chiericale di Cafasso; doti che, praticate in grado eroico, fecero diventare famigliare ai suoi compagni ed amici il dire che il chierico Cafasso non fosse stato affetto dal peccato originale”. Il chierico Giovanni Bosco volle prendere per modello questo suo compatriota. La virtù straordinaria di Cafasso fu quella di praticare costantemente e con fedeltà meravigliosa le virtù ordinarie. Questo fu pure il proposito preso da Giovanni Bosco nell'entrare in seminario, proposito ch'egli poi sempre mantenne in tutto il corso di sua vita.


Vol. I Cap. XLIV Pag. 385

Giovanni continua in seminario a intrattenere i suoi amici con giochi di destrezza

L’aspetto sempre ilare di Giovanni, le sue piacevoli maniere di trattare, la condiscendenza nel prestare servigio a chiunque abbisognasse dell'opera sua, ben presto gli attirarono pur l'affezione di tutti i seminaristi. Ed egli era felice della nuova vita, precisamente come chi vive in continui e squisiti banchetti.
La virtù dell'eutrapelia, che in lui era connaturata, manifestava la tranquillità inalterabile della sua anima. Nel tempo della ricreazione tratteneva i suoi condiscepoli in ischerzi e burle oneste e piacevoli. Talvolta proponeva loro l'interpretazione di certi detti in lingua latina, che generalmente contenevano un pensiero morale. Tal'altra dava di mano al giuoco del bastone, che, appoggiato semplicemente sopra il dito pollice, maneggiavalo in tutti i sensi e facevalo saltare, roteare rapidamente e in fine ritornare immobile sopra il suo dito. Di quando in quando, cedendo alle insistenze dei compagni, nei primi anni, faceva eziandio alcuni giuochi di prestigio. Su questo punto D. Cafasso non aveva approvato il proponimento assoluto da lui fatto nel giorno della vestizione chiericale.
Aveva poi sempre nuove invenzioni per destar l'allegria. Un giorno annunzia ai suoi camerati come egli sia capace di farsi la barba con un rasoio di legno. I compagni, benchè assuefatti a sempre nuove sorprese, rispondono essere impossibile. Giovanni afferma assolutamente. Corrono scommesse, e vien fissata l'ora per farne la prova. Tutti corrono in sua stanza e lo trovano occupato con un vero rasoio a radersi. - E dov'è il rasoio di legno? - Oh bella! Il mio nome qual è? - Bosco! - Questo rasoio a chi appartiene? - È tuo! - Dunque è rasoio di Bosco, e voi avete perduto la scommessa. - Scommessa e dialogo erasi fatto in piemontese e in tale dialetto bosco risponde alla parola legno. I compagni sulle prime restarono sorpresi di non aver capita cosa tanto facile, ma finirono con dargli ragione e scoppiare tutti in una forte risata.
Nel raccontare le storielle Giovanni era di una gaiezza sì attraente, da non potersi immaginare: sapeva contarle tanto bene, da destare sempre l'ilarità di chi l'udiva. Però, d'indole e carattere serio qual era, anche nelle cose più ridicole, egli mai si vide ridere sgangheratamente.
Nel giorno onomastico del rettore del seminario egli veniva di solito incaricato di fare la poesia in greco. Una volta, mentre tutti aspettavano da lui un argomento serio, uscì fuori con un sonetto bernesco. Il primo verso era latino, il secondo francese, il terzo italiano, il quarto piemontese, e così via discorrendo. Fu una risata inestinguibile, sicchè non c'era verso continuar la lettura degli altri componimenti.
Egli era divenuto oggetto di meraviglia ai compagni per la facilità, colla quale componeva ed anche improvvisava a poesie. Ei possedeva nella sua memoria un tesoro inesauribile di versi e di rime. Le sue strofe, piene di brio, talora erano veramente disciplinate secondo le regole; in generale però, ispirate dall'estro, non erano troppo accurate in quanto a rime, misure o tronche, fatte solo per l'effetto del momento, che ottenevano colla bellezza dell'idea. Giustamente perciò egli era chiamato poeta estemporaneo. I suoi carmi erano sempre ispirati da argomenti religiosi e morali e sovente da gratitudine verso i benefattori.
Gli antichi amici del ginnasio civico di Chieri non lo dimenticavano Al giovedì la porteria del seminario si riempiva di giovanetti studenti, i quali venivano a portargli i loro quaderni e le loro pagine da esaminare. Ed egli, tutto lieto, correggeva, notava gli errori, spiegava le frasi, ripeteva loro le lezioni udite in iscuola. Non lasciava però mai che partissero da lui, senza qualche salutare pensiero. Così ci narrava D. Giacomo Bosco


Vol.II Cap. X Pag. 99

Episodio del pastrano fatto ricomparire

Al covitto D. Bosco nulla aveva dismesso del suo fare allegro, che rendevalo principe in qualunque conversazione. Come in seminario ed alle scuole di Chieri, aveva sempre qualche invenzione nuova per rallegrare la brigata. Però in questi suoi scherzi e burle egli teneva sempre un contegno calmo, sorridente, nè punto scomposto o nei gesti o nei passi, nè mai dava in iscrosci di risa. Narriamo qui un altro fatterello, che dimostra sempre meglio come un'insigne pietà ed uno zelo apostolico ponno benissimo accoppiarsi con un umore faceto. Di queste ricreazioni graziose godevano assai anche il Teologo Guala e D. Cafasso, che pure erano uomini di tanto senno e serietà.
Vera nel Convitto un certo D. C...., uomo gioviale ed eteroclito anzichè no, il quale assai bene prestavasi a tenere allegre le brigate, lasciando talvolta anche ridere un poco alle proprie spalle. Costui aveva comprato dagli Ebrei un pastrano così classico per forma e vecchiezza, che era passato in proverbio fra gli alunni del Convitto. Per conseguenza non osava più indossarlo. D. Bosco un bel giorno gli fece andare il pastrano nel suo luogo di studio. Giunta l'ora di studiare, D. C... si pone per sedere e sente un involto che gli dava impaccio: - Che cosa è questo? - esclama; e getta via quell'involto in mezzo alla sala. - Ma che? guarda meglio e riconosce il suo gabbano. Dapprima s'indispettisce, ma poi, non sapendo come andasse la cosa, lo prese e lo portò via fra le risa di tutti.
Un'altra volta D. Bosco gli fece lo stesso giuoco a tavola, in refettorio; ed allora D. C... un po' seccato chiuse il suo pastrano in un baule, e poi colla maggior segretezza possibile lo mandò a casa sua in Torino, proibendo ai parenti di: lasciarlo vedere ad alcuno. Il divieto però non venne ascoltato..
Sopraggiunto il carnevale, D. Bosco per passatempo si dilettava molto nel fare i giuochi dei bussolotti. Si concertò pertanto coll'Abate Fava di ridere sul gabbano di D. C... Sicchè? disse una sera l'Abate a D. Bosco, in tempo di ricreazione, vogliamo divertirci?
- Sì, ridiamo un poco, replicarono il Teol. Guala e D. Cafasso, che erano d'intesa con D. Bosco.
- Dunque a lei, D. Bosco, disse l'Abate, ci faccia qualche bel giuoco.
- Ma che giuoco debbo fare? ripigliò D. Bosco.
I circostanti ne enumerarono molti. D. Bosco ascoltava e taceva, ma finalmente disse: - A voi la scelta di chiedere qualunque cosa meglio vi piacerà, ed io tosto ve la farò comparire innanzi sopra un tavolino.
Immaginate le cose più ridicole e tutte furono chieste quello voleva un gatto, un altro un passero vivo, questo delle uova, l'altro un pollo arrostito. In mezzo a tanto gridìo si alzò la voce dell'Abate Fava: - Facciamo comparire il gabbano di D. C...
La proposta fu applauditissima e fece dimenticare tutte le altre. D. Bosco si scusava dicendo che non era possibile, e D. C.... subito gridò: - Fate pure se vi dà l'animo, giacchè il mio pastrano l'ho lasciato in campagna, l'ho posto sotto chiave e nessuno può prendermelo.
D. Bosco intanto arresosi, si fece dare una bacchetta, si cinse i fianchi con un asciugatoio: poi cantò, e disse parole misteriose. A tutti per le risa dolevano i fianchi. Quindi come scoraggiato assicurò che non poteva riuscire. Pregato con vive istanze, rinnovò i segni cabalistici, e a un tratto esclamò - Silenzio, ora il gabbano è a Costantinopoli, ma lo faremo venire qui! - Le risa si raddoppiavano, mentre D. Bosco faceva ripetere da tutti in coro alcuni paroloni strani, sonori, incomprensibili.
Intanto comandò che fosse portato in mezzo alla camera un tavolino appartenente ad uno dei convittori. Lo aprì, e poi invitò tutti a testimoniare come fosse vuoto: lo chiuse, nuovamente, lo riaprì, per la seconda volta fece vedere a tutti che nel cassetto vi era nulla, e rinchiusolo diede la chiave al Teol. Guala, il quale doveva tenerla in vista di tutti appuntandola verso D. Bosco. - Fate, fate pure diceva con sicurezza D. C.... mentre un sorriso sardonico di compiacenza passeggiava sulle sue labbra.
D. Bosco, preso un aspetto da ispirato, e trinciando lentamente l'aria colla bacchetta, pronunciò quattro parole di quelle che non si trovano in tutte le lingue del mondo, e finì con gridare: - È fatto! - Allora diede la chiave a D. C... perchè andasse ad aprire. D. C.. appena ebbe quella chiave tra le mani: - È questa, esclamò stupito, la chiave del mio baule. - Ed aprì, ed ecco sciorinarsi sotto gli occhi di tutti il famoso pastrano. È indescrivibile la sorpresa e il tripudio dei convittori. D. C... rimase a bocca aperta. E D. Cafasso disse: - Per carità partiamoci di qui, altrimenti si muore dalle risa.
La giocondità del cuore è la vita dell'uomo, ed è un tesoro inesausto di santità.

Vol. III Cap. XII Pag. 136

Le principali solennità nell'Oratorio. Straordinarii divertimenti e spettacoli - I giuochi di prestigio - La ruota della fortuna - Lotterie

All’oratorio in nessuna stagione rimanevano giorni di vacanza. Le sacre funzioni si avvicendavano tutti i giorni festivi.
Queste feste imponevano a D. Bosco nuovi impegni. Ad ogni cosa pensava, a tutto provvedeva e metteva la sua opera.
Nella sera dopo la Benedizione D. Bosco trovava sempre nuovi modi per divertire i suoi giovanetti, e giuochi riserbati solamente per le grandi solennità. Alla moltitudine di que' dell'Oratorio si aggiungevano numerosi benefattori ed
invitati. D. Bosco ciò faceva sempre con uno speciale apparato, disponendo un posto onorevole per i personaggi più insigni. Un po' di musica istrumentale di amici esterni faceva talora sentire ad intervalli le sue note. Incominciava la corsa nel sacco con una merenda preparata al primo o ai primi che avessero, raggiunta la meta; ovvero la rottura delle pignatte piene di ciambelle. Sopra un modesto albero della cuccagna stavano appesi varii oggetti che aspettavano chi si sarebbe arrampicato fino a quell'altezza per impossessarsene. Eravi il così chiamato, giuoco del rompicollo, consistente in un piano inclinato e molto unto col sapone, il quale però non presentava pericolo di sorta, e si dava un premio a chi ne avesse raggiunto l'orlo superiore: impresa non tanto facile e che destava una viva ilarità per gli sforzi che molti facevano per ascendere, mentre il proprio peso li faceva sdrucciolare. Non mancavano le illuminazioni delle finestre e del cortile, l'ascensione, di globi areostatici e i fuochi d'artifizio.
Non di raro D. Bosco stesso cingeva il grembiale del giocoliere, e innanzi al tavolino preparato all'uopo faceva giuochi di prestigio coll'antica sua destrezza di mano. Dai bussolotti faceva uscire ogni sorta di pallottole grosse e piccole con altre cose diverse, che facevano strabiliare gli spettatori.
Faceva andare oggetti nelle tasche altrui, indovinava le carte che altri teneva in mano. Possedeva tal forza nelle dita che quando era in mezzo a' suoi giovani si faceva dare da essi ossa di pesche e le apriva adoperando le sole mani. Se si trovava tra persone che avessero del denaro chiedeva uno scudo in imprestito. Avutolo, diceva al possessore: - Ma guardate che ve lo restituirò solo in pezzi! - Faccia pure gli era risposto. Viva era la curiosità di chi gli stava intorno, ed egli presa la moneta fra quattro dita, la spezzava di un colpo. Da questi esercizii e da quelli di prestigio cessò nel 1860, e l'ultima volta dopo aver esilarati motto i giovani, li atterrì facendoli comparire senza testa.
Ciò D. Bosco aveva fatto a bello studio. La frase essere senza testa, aver la testa tagliata, frase che sovente pronunciava parlando ai giovani, aveva un gran significato: primieramente cioè dover un giovane essere umile, vincere l'amor proprio, rimettersi alla volontà, al giudizio, al consiglio dei suoi superiori e non ostinarsi nelle proprie inconsulte risoluzioni e nei proprii capricci; e in secondo luogo alludeva, ma più velatamente e più di raro, all'obbedienza religiosa nella Congregazione, che egli voleva per mezzo loro fondare; ossia in altri termini, poichè di Congregazione ancora non parlava, di rimanere con D. Bosco nell'Oratorio per aiutarlo nel salvare la gioventù. Ciò diceva solo e alla sfuggita, a quei che conosceva di molta virtù, d'indole generosa e a lui più affezionati. Altri giuochi gli davano poi argomento in vario modo per avvisare qualcuno, in modo festevole, consigliarlo ed invitarlo al bene.
Ricordavano questi spettacoli D. Bellia Giacomo, Buzzetti Giuseppe e cento loro compagni, e aggiungevano notizie d'altri trattenimenti che rendevano sempre più belle queste serate.
Talora D. Bosco in certe feste primarie, p. es., in quella, di S. Francesco di Sales, preparava la ruota della fortuna con biglietti, parte numerati e parte no. Sovra un gran tavolo aveva disposti molti oggetti anche di valore, che era andato a chiedere in dono a' suoi benefattori. Ogni premio, aveva il suo numero. Gli invitati accorrevano in folla; un giovanetto girava la ruota, e D. Bosco stesso estraeva i biglietti, i quali erano dieci volte tanti più dei premii, e li consegnava a chi avea pagato l'importo stabilito. Talora ad uno di quei signori toccavano successivamente dieci o dodici biglietti tutti bianchi, cioè senza diritto al premio, ed essi si, mostravano allegri per l'avuta disdetta, mentre gli spettatori, e specialmente i giovani, ridevano saporitamente. Questa ruota era uno spediente per coprire le spese della festa.
La sorte era eziandio adoperata per tenere gradevolmente occupati i giovani. Era stabilito che almeno ogni trimestre si facesse per loro una lotteria, cioè alla festa di S. Francesco, di Sales, a quella di S. Luigi Gonzaga, di Maria Assunta in cielo, e di Ognissanti. Gli oggetti a ciò destinati consistevano in libri di divozione o di amene letture, quadretti crocifissi, medaglie, giuocattoli diversi, ed anche pei più esemplari qualche paio di scarpe o qualche taglio di vestito. L'estrazione dei numeri era così combinata, che il premio era a scelta, e chi guadagnava, lo aveva corrispondente alla frequenza e alla morale sua condotta.
Oltre a queste, quasi ogni mese, D. Bosco disponeva altre lotterie meno solenni, ma non meno attraenti. Era un'occupazione non tanto spiccia scrivere un seicento numeri su altrettanti biglietti da distribuirsi uno per uno a ciascun giovane; ripetere tutte queste cifre su scaccoli separati e accartocciatoli riporli in un taschetto; infine notarle tutte in un registro, e a lato di ciascuna indicare il premio assegnato. D. Bosco sul poggiuolo davanti alla sua stanza, oppure salito sovra una sedia appoggiata alla chiesa, dopo avere annunziate le condizioni della lotteria scuoteva il taschetto, e adagio, volendo protrarre il divertimento il più che poteva, estraeva i numeri e li proclamava ad alta voce. I giovani si pigiavano in cortile, cogli occhi ora fissi in D. Bosco, ora sul loro biglietto che si tenevano in mano. Talora non essendovi premii abbastanza per tutti, più decine di essi dovevano restare a mani vuote; quindi l'ansietà li teneva sospesi per lunga ora, sperando di essere tra i fortunati. Il più delle volte però tutto era ordinato in modo che ad ogni giovarle toccasse qualche coserella e allora la curiosità li rendeva ancor più attenti, fantasticando che cosa mai avrebbero guadagnato. Sul banco vi erano alcune cravattine, un cappello, un berretto, una giubba, una focaccia dolce, frutta, zuccherini ed altri oggetti che dovevano rendere più ameno quel trattenimento. E le risa e i battimani scoppiavano fragorosi quando il banditore annunziava i premii guadagnati da certi numeri. - Una patata cotta, ovvero: una carota, una cipolla, una rapa, una castagna! - E colui che era chiamato non mancava di presentarsi a ritirare il magnifico dono.
Talvolta i premii erano collettivi, cioè un certo numero di giovani coi loro biglietti ne guadagnavano uno che dovevano poi ripartire fra di loro. Per es., una larga focaccia fra dieci, una bottiglia di birra fra quattro; due pani, due porzioni di salame o di formaggio, una bottiglietta di vino corrispondevano a cinque numeri e formavano un lotto solo. Ma il primo vincitore doveva aspettare che la sorte indicasse gli altri quattro suoi compagni che poi andavano insieme a merendare, ciascuno facendo parte eguale di ciò che loro era toccato. Nuovi commenti e nuove risa provocava la formazione di questi gruppi, fatta dal capriccio della fortuna, che accozzava talvolta caratteri disparati ed avversi. Ma tutto andava pel meglio ed anche i mali umori si dileguavano.
Nè hassi però a credere che D. Bosco largheggiasse di soverchio in queste occasioni. Eccettuati alcuni casi straordinarii, e quando riceveva a tale fine doni vistosi dai benefattori, sapeva far risparmio di danaro per impiegarlo in altre spese più urgenti. La compra dei premii non oltrepassava mai le dieci lire, e trovava sempre distinti personaggi che volentieri gliene facevano dono. Anzi, aggiungeva D. Michele Rua testimonio del fatto, con tre lire e mezzo spesse volte contentava tutti e in modo sorprendente; e non mancava mai qualche premio di bella apparenza, benchè di poco valore. D. Bosco soleva dire: “ I giovani stimano le cose secondo hanno imparato a giudicarle. Non è il molto ma il dato di cuore, anche a poco a poco, e in tempo opportuno che torna loro gradito ”.
Ed egli col suo fare e colla sua parola incantevole tutto rendeva bello ed amabile.

Vol. IV Cap. XXXVI Pag. 416

Don Bosco e il notaio di Pavia – episodio dei canarini

Dal 1840 al 1860 una classe nuova di persone ebbe a provare le sue beneficenze e fu quella degli emigrati politici, venuti in Piemonte da varii stati d'Italia e specialmente dalle terre Venete e Lombarde per sottrarsi ai rigori de' restaurati governi.
Primo fra questi fu un notaio di Pavia, che aveva messo a rischio la sua agiata condizione di famiglia, ed ora per vivere dava spettacolo in piazza S. Carlo a Torino. Egli aveva addestrato un bel numero di canarini a fare giuochi singolari. Li poneva sopra una tavola e ad un suo segnale uno di quelli cantava mentre tutti gli altri tacevano. Quindi faceva fare una sfida fra due di quelli uccelletti ed erano singolari gli sforzi di ciascuno per vincere nel canto l'avversario. Talora tutti insieme cantavano a coro, quindi continuava un solo; il coro poscia ripigliava i suoi gorgheggi finchè fatto silenzio lasciava che un duetto facesse udire i suoi trilli armoniosi; in ultimo un gran coro finale chiudeva la musica. Folla immensa assisteva alle prodezze di questi piccoli cantori, che tacevano, cantavano, a solo o all'unisono, ad un cenno del loro addestratore.
Si ricorda con particolare vaghezza una scena cui davano luogo con una comicità artistica. Uscivano due canarini l'uno contro l'altro con una spadina di cartone attaccata ad una zampetta, e incominciavano il duello. Grazioso il gesto di alzare la spada e colpire l'avversario. Uno, restato tocco, zoppicava come se fosse ferito. L'altro gli faceva le volte attorno mentre il ferito girava sopra se stesso spiando le mosse del nemico. Finalmente l'assalitore alzava la zampetta, calava un secondo fendente e l'altro toccato si lasciava cadere come morto, rimanendo immobile. Tutti gli altri canarini allora uscendo da ogni parte li correvano intorno e, cantando in suono lamentevole, giravano confusamente. Quindi lo prendevano col becco e lo strascinavano sopra un piccolo rialzo posto in mezzo al tavolino; e stando sempre immobile il finto morto, col becco gli stendevano sopra una piccola carta in forma di drappo funebre e su questa carta ponevano del fieno che stava riposto in un angolo del tavolo. Così sepolto e sotterrato il compagno correvano via alle estremità del tavolo con movimenti di testa, con rotti e lenti gorgheggi, in apparenza di orrore e dolore e di là alzavano il becco come per vedere il tumolo e movendo sempre il capo riprendevano il canto funebre. Ma ad un tratto il morto sbatteva da sè carta e fieno, saltava in piedi e incominciava un lieto gorgheggio. Allora tutti gli altri canarini gli correvano intorno e gli facevano eco con un canto festoso.
Sembrava impossibile se non si fosse visto, che si potesse ammaestrare e rendere obbediente a quel punto una famiglia di volatili. D. Bosco ne avea sentito parlare, quindi mentre raccoglieva giovani per condurli nell'Oratorio a Porta Nuova, passando in piazza S. Carlo si era fermato alquanto per assicurarsi dell'abilità di quel notaio. Allora accadde un caso strano. Mentre quei canarini fuggivano all'appressarsi troppo di qualche spettatore, non si spaventarono all'avvicinarsi di Don Bosco, ma gli volarono sulle spalle, sulle braccia e sulla mano, e si lasciarono accarezzare da lui. Egli non tardò a farsi amico col giocoliere, interessandolo a raccontare i varii modi usati nell'addomesticare gli uccelli, le molte prove fatte con varie specie, e specialmente la riuscita coi canarini, che più di tutti si arresero facili a' suoi ammaestramenti. Era questa l'arte di D. Bosco per affezionarsi le persone: secondare il loro genio. Quel notaio perciò venne molte volte in Valdocco, e fu da lui invitato a fare la Pasqua e a mandare all'Oratorio festivo un suo figliuoletto che lo aveva accompagnato nell'esiglio. Egli era contentissimo della sua riuscita in questo esercizio e dell'amicizia con D. Bosco, senonchè venne a funestarlo la malignità e l'invidia. Un mattino trovò tutti i canarini morti asfissiati nella loro gabbia, nella quale un malvagio aveva introdotto denso fumo di tabacco. D. Bosco volle prendere sopra di sè parte della spesa pel mantenimento del figlio di quell'uomo disgraziato, e il giovanetto venuto all'Oratorio diceva a D. Bosco: - Mio padre aveva faticato tanto nell'addestrare quelli uccelli! quanto ha sofferto per questa cattiva azione!

16 agosto 1815. Giovanni Bosco nasce ai Becchi, un gruppo di case che fa parte di Morialdo, frazione di Castelnuovo d’Asti. I suoi genitori sono Francesco e Margherita Occhiena. Da un primo matrimonio, Francesco Bosco ha avuto tre figli: Antonio, nato nel 1808 e Teresa Maria, nata nel 1810 e morta dopo appena due giorni di vita.

1824. Un sogno misterioso rivela a Giovanni Bosco la missione alla quale Dio lo chiama: prendersi cura dei giovani abbandonati e incamminati per una cattiva strada.

4 novembre 1831. Giovanni scende a Chieri. Vi trascorrerà dieci anni della sua vita. Vivendo a pensione e pagandosi le spese con mille espedienti, può frequentare le scuole pubbliche.

1832. Tra i compagni di scuola fonda la sua prima associazione: La Società dell’Allegria. Il programma è condensato in due punti: compiere bene i propri doveri di cristiano e di studente – Essere allegri.

Ottobre 1835. Indossa la veste talare dei chierici e entra nel Seminario di Chieri. Ha deciso di diventare sacerdote.

5 giugno 1841. Giovanni Bosco è consacrato Sacerdote dall’Arcivescovo di Torino, mons. Fransoni, nella cappella dell’Arcivescovado. Il giorno dopo dice la sua prima Messa all’altare dell’Angelo Custode nella chiesa di San Francesco d’Assisi. Lo assiste don Cafasso. Che diventerà la guida spirituale della sua vita.

18 dicembre 1841. Incontra nella sacrestia della chiesa di San Francesco d’Assisi un giovane immigrato, Barolomeo Garelli di Asti. Invita lui e i suoi amici a un incontro settimanale. E’ l’inizio dell’Oratorio.

Autunno 1844. Inizia la “migrazione” dell’Oratorio di don bosco in diversi luoghi della città: presso l’opera della Marchesa di Barolo, nel cimitero di San Pietro in Vincoli, presso i Molini di Città, in casa Moretta, in un prato dei fratelli Filippi. Dovunque i ragazzi sono mal sopportati per il loro chiasso. Don Bosco è sospettato di ribellione alle autorità civili e addirittura di pazzia.

12 aprile 1846. L’Oratorio si trasferisce sotto una tettoia affittata da Francesco Pinardi, in Valdocco. E’ il giorno di Pasqua ed è il suo trapianto definitivo.

Maggio 1847. Don Bosco ospita, in cucina, il primo ragazzo che gli chiede di stare con lui, un immigrato della Valsesia.

1850. Don Bosco fonda all’Oratorio una Società di mutuo soccorso per i giovani lavoratori.

26 gennaio 1845. Don Bosco propone a quattro giovani (Rua, Cagliero, Rocchietti, Artiglia) la fondazione dei Salesiani.

29 ottobre 1854. Entra nell’Oratorio Domenico savio, il “ragazzo santo”.

25 novembre 1856. Mamma Margherita muore a 69 anni.

18 dicembre 1859. Nasce ufficialmente la Congregazione Salesiana. Con don Bosco, i primi salesiani sono diciotto.

Marzo 1864. Si pone la prima pietra del Santuario di Maria Ausiliatrice in Valdocco.

5 agosto 1872. Nasce la Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che affianca l’opera dei Salesiani. Superiora è Maria Domenica Mazzarello, che insieme a dieci altre giovani in questo giorno riceve l’abito e fa i voti religiosi.

11 novembre 1875. Iniziano le Missioni Salesiane. Capeggiati da don Giovanni Cagliero partono per l’Argentina del sud i primi dieci missionari.

1876. Don Bosco fonda, con l’approvazione della Santa Sede, la terza famiglia salesiana: i Cooperatori. Essi dovranno aiutare la Chiesa, i Vescovi, i Parroci promuovendo il bene secondo lo spirito della Società Salesiana.

1881. Muore Madre Mazzarello, con fondatrice delle suore di Maria Ausiliatrice.

1887. In aprile don Bosco scende a Roma un’ultima volta per la consacrazione del Tempio del Sacro Cuore. La sua salute è a pezzi.

31 gennaio 1888. Don Bosco muore all’alba.

 

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